VERBANIA – 08.05.2018 – Sei anni di cause,
tre gradi di giudizio e spese legali superiori al rimborso richiesto. È arrivato fino alla Corte di Cassazione il cacciatore che dal 2011 reclama per sé il camoscio (o, meglio, il controvalore della carne macellata e venduta all’asta: 108 euro) erroneamente abbattuto ma per il quale aveva pagato una sanzione. L’origine del lungo iter giudiziario ha una data: 4 settembre 2011. Quel giorno, mentre si trova tra i monti del Vco, spara a un ungulato, centrando il bersaglio. Quando però s’avvicina al camoscio si accorge che non è un maschio, ma un esemplare femmina che, secondo il calendario venatorio, in quella stagione era vietato abbattere. Di questo errore si autodenuncia all’autorità venatoria, accettando il verbale e la sanzione dovuti. Una settimana e mezza dopo chiede alla Provincia che gli venga restituito il camoscio, che ritiene sia suo perché, appunto, ha pagato un’ammenda per l’errore compiuto. Il rifiuto opposto dall’ente, che nel frattempo ha disposto la macellazione dell’animale sequestrato e la vendita all’asta delle sue carni, innesca una prima causa civile, che nel marzo del 2013 si chiude al tribunale di Verbania sfavorevolmente al cacciatore che l’aveva promossa. Di analogo parere, nel maggio del 2015, è la Corte d’Appello di Torino. Si arriva così in Cassazione. Di fronte alla Suprema Corte l’uomo ribadisce la sua richiesta, ma si trova di fronte a un nuovo “no”, che gli Ermellini sanciscono con la sentenza depositata ieri, sei anni e otto mesi dopo quello sparo errato.


