1

cassazione roma

VERBANIA - 10-11-2022 -- Aveva accusato un collega d’averlo deliberatamente danneggiato, d’aver forzato un terzo medico a rilasciargli un’idoneità parziale, valida solo per sei mesi. È finita la condanna definitiva sancita dalla Corte di Cassazione la querelle medico-sindacale interna all’Asl Vco che ha avuto come protagonista il nefrologo Pantaleo Ametrano (rappresentante sindacale della Uil) e il dirigente del dipartimento di Prevenzione -nonché dello Spresal- Giorgio Gambarotto. Nel dicembre del 2014 questi apprese che Ametrano aveva inviato alla direzione dell’Asl Vco un fax in cui chiedeva d’essere esonerato dalle visite del lavoro svolte da un collega, sottoposto di Gambarotto, che secondo lui era stato indotto da questi a fargli un dispetto. Nei giorni antecedenti, infatti, sottoposto alla routinaria visita di idoneità al lavoro, s’era visto rilasciare un certificato valido per soli sei mesi, anziché per un anno come quello precedente.

Nella convinzione del sindacalista la colpa era di Gambarotto, che l’aveva fatto apposta per ragioni probabilmente personali. Da qui la richiesta di esonero che fu interpretata dal diretto interessato come una diffamazione, un tentativo di discredito inaccettabile perché l’accusa non corrispondeva al vero.

La querela per diffamazione, senza aggravanti contestate (con la competenza che passa al giudice di pace e i tempi della giustizia che si allungano), ha portato a un procedimento che s’è chiuso in primo grado a inizio 2021. Il giudice di pace ha condannato Ametrano a 500 euro di multa e a 2.000 di risarcimento -oltre alle spese legali- alla controparte. Contro quella sentenza è stato proposto appello e il Tribunale di Verbania, organo giudicante di secondo grado, ha confermato la decisione.

La terza puntata è andata in scena a Roma, in Corte di Cassazione. Agli ermellini l’imputato ha chiesto di valutare due fatti, uno tecnico-giuridico e uno interpretativo. Il primo riguardava la mancata contestazione dell’aggravante, che avrebbe portato il processo davanti al giudice monocratico e che, non applicata, ne avrebbe leso il diritto di difesa. La seconda riguarda ciò che conosceva il denunciante, cioè la convinzione d’essere stato davvero maltrattato per colpa del diffamato. Entrambe le tesi sono state respinte dalla Cassazione, che ha reso definitiva la condanna.

 


Su questo sito utilizziamo cookie tecnici e, previo tuo consenso, cookie di profilazione, nostri e di terze parti, per proporti pubblicità in linea con le tue preferenze. Se vuoi saperne di più o prestare il consenso solo ad alcuni utilizzi clicca qui. Se prosegui nella navigazione di questo sito acconsenti l'utilizzo dei cookie.