VERBANIA - 28-10-2022 -- Per il secondo figlio volevano un parto naturale e, per garantirlo in sicurezza, s’erano rivolti a due ostetriche private, ingaggiate per l’assistenza domiciliare e per il trasporto della mamma all’ospedale di Varese. È lì, in una struttura attrezzata per le emergenze, che a fine novembre del 2017, sarebbe dovuto nascere Pietro, morto invece nel grembo della madre che, con la rottura dell’utero, ha a sua volta rischiato di perdere la vita.
Per la gestione di quella gravidanza, con l’accusa di omicidio colposo e lesioni colpose in concorso, la Procura di Verbania ha mandato a giudizio due ostetriche lombarde. Marta Campiotti, 66 anni, e Cristina Clerici, di 33, sono rispettivamente la fondatrice e responsabile della Casa Maternità di Montallegro -a Induno Olona- e una sua collaboratrice.
A loro, a fine estate del 2017, si rivolse una coppia di Verbania. La moglie, allora trentenne, aveva già partorito una figlia, ma la gravidanza s’era chiusa con un intervento chirurgico e, per il secondogenito -un maschio- voleva un parto naturale. Dopo un taglio cesareo - ha raccontato la mamma - i ginecologici le consigliavano la stessa procedura, più sicura per evitare la lacerazione dell’utero, non applicabile a Verbania perché non c’è un reparto di Neonatologia con strutture e personale adeguato per un’eventuale emergenza. Fu allora che la coppia maturò la decisione di partorire a Varese. Si ponevano, però, problemi logistici, perché il marito non può guidare e perché loro abitano in una casa -in pieno centro storico- non raggiungibile direttamente in auto, priva di ascensore e con due piani di strette scale da superare.
Tramite una mamma e un’associazione locale, la partoriente ebbe il contatto di Campiotti, professionista molto conosciuta, esperta, autrice anche di libri e amministratrice della Casa Maternità. A lei chiese l’assistenza per il giorno del parto e la disponibilità ad accompagnarla in auto da Verbania a Varese. Dopo una prima visita a Induno Olona e un sopralluogo nell’abitazione dei clienti, a inizio novembre presero accordi verbali (un contratto non esiste) per quando sarebbe giunto il travaglio. Che, fu assicurato alla mamma, non era imminente.
Le doglie si presentarono però nel volgere di poche settimane. La mattina del 27 novembre 2017 la verbanese non si sentiva bene. Contattò le ostetriche, che inizialmente le dissero di attendere e monitorare le sue condizioni. Nel pomeriggio Clerici arrivò a Verbania, assistette la donna, e si fermò a dormire da lei, ritenendo che non servisse il ricovero. Nella notte la situazione precipitò. Al mattino la mamma, spaventata, disse che non sentiva più il bambino. Andare in ospedale non fu più una scelta. Non venne chiamata l’ambulanza e la partoriente percorse i due piani di scale e un buon tratto a piedi, sule sue gambe, sino all’auto. Era in condizioni critiche perché, come poi accertato dai medici, l’utero s’era lacerato. In ospedale venne operata e il bimbo, nonostante i tentativi di rianimazione, fu dichiarato morto.
Due anni e mezzo dopo la tragedia, anche a seguito di due interventi ginecologici, la famiglia -che nel frattempo ha potuto gioire per la nascita d’un bambino- sporse denuncia. Le indagini condotte dal sostituto procuratore Nicola Mezzina, avvalendosi anche di perizie mediche, hanno convinto la Procura che l’operato delle due ostetriche sia stato inadeguato e, per questo, ne ha chiesto il rinvio a giudizio.
Clerici ha patteggiato ed è uscita dal processo che, ora, vede alla sbarra la sola Campiotti. Di fronte al giudice Beatrice Alesci sono stati chiamati i primi testimoni, a partire dai genitori (costituiti parte civile), che hanno raccontato degli accordi presi e del tragico travaglio durato due giorni. Ha testimoniato la stessa Clerici, che ha ammesso di sentirsi responsabile e in colpa. L’accusa, sostenuta dal pm Anna Maria Rossi, ha insistito sull’esistenza di un contratto professionale preso dalla famiglia con le ostetriche e, riconoscendo l’inesperienza e l’imperizia della più giovane, ha cercato di dimostrare che è stata lasciata sola dalla sua responsabile e che, per ragioni mediche e logistiche, fin da subito le professioniste della Casa Maternità avrebbero dovuto rifiutare l’incarico: nell’emergenza, se avesse agito diversamente, si sarebbe potuto salvare il bambino e la mamma non avrebbe rischiato di morire.


