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VERBANIA - 07-10-2022 -- Un fulmine che per un istante fa spuntare il giorno dal buio, un lampo che non trafigge l'aria ma che rischiara il tempo restituendoci, nitida, la fotografia di qualcosa che s'è perso per sempre. Tutto nello spazio di settemila caratteri, più o meno. Cannobina anni '80, la valle selvaggia che al passo dei tempi, allora, pareva proprio non saperci stare. E' la valle che dal lago s'arrampica in Vigezzo, la vera protagonista di "No Vax", il racconto di Carlo Bava fresco vincitore del premio Andrea Testore - Plinio Martini per la sezione narrativa. Un premio dipanato sul filo del "Salviamo la montagna" e che domenica a Cavergno (Val Bavona, Ticino) vedrà la premiazione.

Il "dutur" Bava è contento del premio, ne riconosce il peso ma si schiva: "Mi sento un privilegiato" dice, lui che - abbandonata la professione medica - s'è dedicato all'arte, anzi alle arti. E così si divide tra la produzione di documentari (con successo, si direbbe), la scrittura, la fotografia e la musica, quest'ultima compagna da sempre delle ispirazioni del dottore. Tanto per non dire che in pensione ci si debba necessariamente annoiare, anzi, il tempo andato non sia mai detto che finisca per diventare un toccasana.
Ad esempio, per tirare fuori dal cilindro l'ultimo gioiellino Carlo Bava ha riavvolto la pellicola di quarant'anni, ritornando ai suoi inizi di dottore, al primo passo della sua carriera come medico condotto in Valle Cannobina. Lui che, nato a Cannobio, la valle la teneva alle spalle e dunque volente o nolente se la portava nello zaino mentre lo sguardo spaziava oltre. Oltre la riva opposta, in quella Lombardia dove si va a fare l'università e da dove si ritorna sempre un po' diversi. Diversi, ma se si è fortunati, al rientro si recupera per intero il patrimonio familiare. Non soldi, no, ma storie, e il dialetto, "regalo ignaro dei miei genitori", scrive il dutur.
Cannobina "luogo dell'anima", dice. Ed è in questo microcosmo di paesi minuscoli e verde infinito che il medico condotto con in mente l'idea romantica della professione appresa da Cronin adotta la valle e se ne lascia adottare così che "luoghi amici e amici in quei luoghi, divennero una quotidianità fatta di sentimenti semplici, legati alla gioia e alla sofferenza, alla vita e alla morte".
Cuore pulsante di ogni borgo è la scuola coi suoi pochi alunni nessuno dei quali ha "mai goduto delle tante attenzioni da sempre riservate agli scolari di città". Ma ben presto "Spazzolini e dentifricio, trovarono un posto in fondo agli zainetti. Una novità.
Persino i pidocchi, visti 'in macro', parevano simpatici e non più responsabili di inutili e discriminanti 'rapate a zero'. Ben presto, ogni scuola della valle, con farmacie, dietiste, case farmaceutiche e docenti, si ritrovò attore inconsapevole di una storia nuova che, a tratti, regalava il sapore di una fiaba a lieto fine".
Ma in ogni storia che si rispetti c'è anche il momento dell'insuccesso, ovvero dell'aspetto indomito della valle selvaggia col quale dover fare i conti. Aspetto incarnato nello specifico da Antonio: gote rosse, occhi azzurri e 8 anni di testardaggine allo stato puro. Il contrappunto è sua madre: un "donnone" che a suon di sberle prova a condurlo alla ragione, nello specifico prova a convincerlo a farsi vaccinare. E sono grida e sberle, lacrime e sberle, fughe, sberle e altre sberle ancora. Il finale non lo sveliamo, lo lasciamo alla lettura del racconto che in fondo - incredibile a dirsi - è un inno alla tenerezza. La tenerezza insita nei ricordi e la tenerezza ben nascosta dalle scorze dure, come quelle di Antonio e della sua mamma gigantessa, che ti vien voglia di abbracciarli, tutti e due, proprio perchè sono come sono.
Antonella Durazzo

 

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