STRESA - 20-08-2020 -- È “Noi” di Paolo Di Stefano (nella foto),
edito da Bompiani, il quinto e ultimo romanzo tra quelli in concorso al Premio Stresa di narrativa a essere presentato questa sera. L’ultimo incontro con l’autore prima della cerimonia di premiazione si terrà, come quelli precedenti per via del Covid-19, in maniera virtuale, dalle ore 21, sulla piattaforma zoom tramite pc al link https://zoom.us/j/94064757383? (password ai9OMk5TcTk3Z09CNUJSNGhkUUpYZz09Sui), e su smartphone tramite la app dedicata (le coordinate: meeting ID - 940 6475 7383; password 664843. Di seguito ne proponiamo la recensione.
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La motivazione ideologica che accomuna le famiglie italiane del secondo dopoguerra è quella di affermare il proprio stato di benessere economico riscattando le proprie origini contadine. Da nord a sud dell’Italia, l’acquisto della casa di proprietà, con l’ausilio dei primi comfort offerti dalla tecnologia ai suoi esordi, è stato un modo per migliorare quella condizione di vita iniziale fatta di poche cose e tanta miseria. Negli anni Sessanta, il frigorifero d’estate e i caloriferi d’inverno rappresentavano la ricchezza, ostentata dai figli nei confronti dei padri.
Il romanzo di Paolo Di Stefano racconta ogni particolare di quella trasformazione sociale avvenuta al seguito della Seconda Guerra Mondiale, trascritta cronologicamente su delle agendine da Vannuzzo, conservate da Dinuzza dentro un cassetto del buffet della vecchia casa di Avola.
Le famiglie Di Stefano e Confalonieri, all’insaputa gli uni dagli altri, nel 1943 fuggono dalle loro case perché i tedeschi seminano il terrore e gli americani fanno paura.
Il maresciallo Confalonieri, abbandona la sua divisa dell’esercito Regio in una cassa del solaio, poi ordina alla moglie, la marescialla, e ai figli, Dina, Salvatore e Pierino, di mettersi in marcia verso la montagna di Cavagrande del Cassibile, per salvarsi dalle retate.
Quando il maresciallo viene mandato in congedo forzato per aver risposto ad un suo superiore “Signor no”, la famiglia Confalonieri cade in disgrazia. Giovanni u Crucifissu, classe 1889, soprannominato il femminaro, è un pecoraio prepotente soprattutto con la moglie Mariannina, padre tiranno nei confronti dei figli, in particolare con Vannuzzo, timido ed introverso sognatore.
La fotografia scattata nel 1948, con l’elenco di nomi dei compagni di classe della III B, riporta alla memoria del narratore l’amore platonico di Vannuzzo per Anna Suma, un sentimento ardente, destinato a svanire con il trascorrere del tempo.
Tra concorsi, raccomandazioni e tanta voglia di fuggire da Avola, Vannuzzo nel 1952 parte per prestare servizio al Collegio di Lodi, in quel mentre iniziano le sue ricerche all’orfanotrofio di Nola convinto di avere dei fratellastri sparsi per il mondo.
Vannuzzo è il classico uomo psico-repellente e pre-freudiano, e questa definizione dell’autore descrive un uomo ad un bivio esistenziale, senza fissa dimora, fino a quando nel 1963 trova un posto come insegnante al Liceo Carlo Cattaneo di Lugano.
Mafalda, la prima fidanzata, scompare il giorno che Vannuzzo viene richiamato ad Avola dal padre Giovanni u Crucifissu con l’inganno; quel tranello segna l’inizio della sua storia con Corradina, la primogenita del Maresciallo Confalonieri, appena ritornata da Genova.
Dinuzza si sposa con Vannuzzo già incinta di Roberto e poi arrivano altri due figli, Maria e Alberto, e con loro tanti sacrifici. Claudio nasce nel 1962 e la famiglia si trasferisce nella nuova casa che ha finalmente le tende con le mantovane di velluto, un segno di eleganza e di riscatto sociale, così come la prima seicento e la Taunus 12M. Vannuzzo non è mai contento di niente mentre Dinuzza interpreta l’arte della finzione e del dramma, per ripristinare l’autorità dei capi famiglia.
Per avvicinarsi a Dinuzza e Salvatore, il figlio direttore di una ditta bolognese di componentistica meccanica, i nonni materni si trasferiscono a Pioltello, vicino a Milano, ma prima vendono la casa, in Corso Gaetano d’Agata.
Quando la famiglia si riunisce dai nonni materni l’umore della giornata dipende da zio Salvatore e come annota l’autore, era allora, una volta finito il pranzo, che le donne cominciavano a discutere su cosa preparare per cena.
Dani Seydel, l’amico dell’asilo di Claudio, è stato l’ultimo depositario di Brontolo, un regalo di zio Salvatore a suo nipote, che spesso ricorre come metafora poetica ad intervallare il romanzo insieme ad Elisa, figura emblematica trascritta con lettere a caratteri rossi.
Intorno agli anni ‘70 Vannuzzo fa costruire un villino nella località marina di Fontane Bianche, la dimostrazione che, con il sacrificio e il lavoro, si può riscattare la propria condizione di partenza.
Frank, il caro amico svizzero, spesso trascorre le vacanze in Sicilia ed è stato lui ad aver messo una buona parola per l’assunzione della voce narrante al Corriere del Ticino; sono le coincidenze a fare riflettere l’autore che racconta di quando, il 19 luglio 1985, lo stesso giorno del disastro in Val di Stava per il crollo della diga, muore Carmelina la marescialla.
Con l’avanzare dell’età Vannuzzo cerca di comporre il suo puzzle mentale siculocentrico; spesso si alza di notte per andare a trovare il figlio al cimitero, nei pressi della chiesa di Pazzalino, tenendo in mano il pesciolino d’oro trovato da Claudio nell’ uovo di Pasqua del suo ultimo anno di vita. Il piccolo Claudio è sempre stato il centro delle attenzioni di tutti i familiari fino a quando la leucemia si è appropriata della sua vita. La malattia non ha toccato l’udito di Claudio che partecipa, in prima persona, alla preoccupazione dei suoi genitori nel cercare una cura introvabile.
Claudio non voleva sposarsi e lo ripeteva spesso alla mamma ma non voleva nemmeno morire e quindi immaginava, ancor prima che accadesse, tutto quello che non avrebbe mai vissuto. L’autore afferma: “l’abitudine ci salva”, anche quella di un’azione ripetitiva e banale come comprare il giornale.
Insieme alle parole e alle fotografie, sono le canzoni riprodotte dai mangiadischi a far risuonare le note nostalgiche del Festival di Sanremo che fluiscono nella mente del narratore, come un fiume di ricordi, riportando alla sorgente l’amore che è all’origine di ogni legame.
Non c’è nessuna verità assoluta, nel romanzo di Paolo Di Stefano; ogni racconto famigliare, tramandato nel tempo, è solo un indizio che ci esorta a non dimenticare le nostre origini.
Monica Pontet*
*docente, scrittrice e pubblicista


