
VERBANIA - 10.03.2019 - E' il 30 marzo del 1969, 50 anni fa.
Al cinema Impero a Intra (dove oggi è Cinelandia) una folla di giovani attende con ansia l'arrivo sul palco di Fabrizio De Andrè. Sono anni ribelli, la contestazione giovanile esplosa nei mesi precedenti tra le università americane, Parigi, le grandi città d'Europa ha una sua eco anche in provincia e la colonna sonora e poetica che altrove esplode nel rock, qui da noi la dettano innanzitutto i cantautori. Con i loro pochi accordi per chitarra e i testi che provocano, stravolgono, se è il caso irridono il consunto canone della canzone pop. De André ha 29 anni ed è già famoso quando incontra i ragazzi di Verbania: La canzone di Marinella è uscita 5 anni prima, e i primi album hanno confermato la sua straordinaria vena poetica. Volume I (1967), Tutti morimmo a stento (1968), Volume III (1968). A gennaio, durante il Festival di Sanremo, Luigi Tenco che è collega ma soprattutto amico fraterno di Faber, viene trovato morto nella sua camera d'albergo. Suicidio, si dirà. Fabrizio scrive di getto "Preghiera in gennaio" affidando l'amico a quel “Dio di misericordia" pronto a spalancare il Paradiso anche ai peccatori. Soprattutto ai peccatori: ai ladri, ai suicidi, alle prostitute che l'anarchico Faber canta nei suoi versi. Della spiritualità di De André s'è parlato molto in questi venti anni trascorsi dalla sua morte, come tanto s'è detto della sua amicizia con don Andrea Gallo, il "prete rosso" di Genova che l'ha accompagnato sino all'ultima ora. Ma un altro sacerdote entra inaspettatamente in questa storia, è don Carlo Scaciga, 75 anni, attuale collaboratore delle parrocchie unite di Novara Centro, 50 anni fa giovane prete a Intra. Fu lui, assieme a don Donato Paracchini, allora alla Famiglia Studenti, a richiamare a Verbania il cantautore dando inizio a un'amicizia che culminerà con un capolavoro assoluto di De Andrè, "La buona Novella" (1970), definito dallo stesso autore il suo lavoro migliore e nella cui stesura il rapporto col sacerdote ha avuto una certa influenza. Al racconto di questa amicizia è dedicato un intero capitolo del libro "Tutti morimmo a stento" (Lampi di stampa); in questi giorni la storia è stata anche ripresa in un'intervista a don Scaciga dalla giornalista di Famiglia Cristiana Emanuela Citterio, che ha incontrato il sacerdote nella sua casa di Novara. Don Carlo comincia il suo racconto dal primo incontro con il cantautore, a Genova, per consegnargli la lettera d'invito a Verbania. Non per un concerto, ma solo per parlare ai giovani. "Fece una serie di telefonate - spiega al settimanale cattolico -, convocò a casa alcuni suoi collaboratori e restammo a discutere fino al pomeriggio. Alla fine concordammo che la cosa si poteva fare. Sarebbe venuto a Intra la Domenica delle palme. 'Sia chiaro, però, che non canto', ci avvisò".
Le cose vanno diversamente, De Andrè canta mentre assiepati nel cinema ci sono circa 800 giovani. "Era terrorizzato, voleva andarsene - prosegue don Carlo - In quel momento mi sono reso conto di quanto fosse emotivo e ipersensibile. Alla fine lo convincemmo a salire sul palco, ma era terreo in volto, gli tremavano le gambe". Su richiesta di un giovane, Faber prende la chitarra e intona "Si chiamava Gesù", è un'ovazione. "Alla fine, lui che non voleva iniziare non si sarebbe mai staccato dai ragazzi, che continuavano a fargli domande. Dovemmo cacciare tutti fuori dopo tre ore e mezza".
Racconta don Carlo che fu in un incontro successivo che De Andrè gli comunica la volontà di scrivere qualcosa su Gesù, ma non vuole ricorrere ai Vangeli ("L'ufficio stampa ufficiale") ed è così che don Scaciga gli parla del valore storico e spirituale dei Vangeli apocrifi, che il cantautore non conosce, dei punti di vista diversi contenuti in essi :"Non oserei mai dire che abbiamo ispirato La buona novella, ma gli abbiamo regalato un libro che forse a lui è servito. E anche le nostre chiacchierate credo siano servite", precisa il sacerdote.
Negli anni seguenti don Scagica e De Andrè non hanno più avuto modo d'incontrarsi, ma il ricordo del sacerdote è vivido, il giudizio certo: "Posso dire che Fabrizio aveva una sensibilità spirituale acuta e profonda. Aveva parole puntute contro la religione ingessata e interessata al potere e il perbenismo di chi giudica gli altri. Ma in lui non c’era acredine, c’era questa visione anarchica e scapigliata, però sostanzialmente rispettosa. E per certi versi profetica".
Antonella Durazzo


